“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 04 October 2013 02:00

Silvio D'Arzo o del silenzio

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Silvio D’Arzo è un riflesso, una patina momentanea ed incerta, un’immagine veloce, pulviscolare, furtiva. Somiglia a certe figure che – per sbaglio – appaiono in uno specchio o in una vetrina per poi sparirne in un attimo o a certi passanti che, in strada, ti sfiorano il gomito ma di cui senti l’esistenza soltanto quando hanno già voltato l’angolo. Come fatto di fumo, di polvere, di materia che non è davvero toccabile o come inevitabilmente sbiadito, in penombra, posizionato di lato, Silvio D’Arzo appare senza apparire, presenzia senza imporre la propria presenza, si manifesta latitando, parla rimanendo in silenzio, riempie uno spazio che tutti continuano a considerare uno spazio vuoto.

Somiglia al Celibe di Kafka, per il quale “la felicità è comprendere che il suolo su cui si è fermato non può essere maggiore dell’estensione coperta dai suoi piedi”; quel Celibe che si rassegna e si adatta a uno spazio sempre minore; quel Celibe cui toccherà una bara delle esatte dimensioni a lui necessarie: non un millimetro in più.
Somiglia a tutte le persone di cui ignoriamo il nome e che passano le loro giornate a celarsi: in mille affanni domestici; in una lettura che inganni il tempo e i fallimenti che il tempo propone; in una contemplazione del mondo (una via trafficata, un parco giochi rumoroso, un crocicchio di persone che discutono animatamente) senza davvero far parte del mondo. Dalla finestra, dietro la tenda, inclinando leggermente lo sguardo.
Non che Silvio D’Arzo non abbia respirato l’esterno – si intenda – ma è come se lo avesse fatto senza lasciare nessuna traccia, nessun segno evidente di sé.
Perché lo si debba considerare realmente vissuto si fa fatica ad affidarsi alla sua biografia poiché potrebbe dirsi, per essa, ciò che lo stesso D’Arzo scrisse della biografia di Henry James: "È decisamente povera di fatti. E più ancora di decisioni che di fatti. Ne è deserta. James fu un eterno spettatore".
Cosa sappiamo, infatti, di D’Arzo?
Lo sappiamo nato da un padre ignoto e da una madre che è l’unica vera presenza calda che avverte: "Se mi dovesse morire mia madre credo che odierei il mondo intero: e nei momenti di dubbio, quando sono alle prese con difficoltà letterarie e sento la mia dappochezza, mi rimprovero subito, al pensiero che ho mia madre e che la realtà che vale è solo quella. Non dirò che sia un discorso ragionevole, questo: ma io sento di non poterne fare a meno". "Mia madre" – continua – "la mia grande madre provinciale, che non legge niente ma che, se vede qualche cosa che accenna un poco a suo figlio, si fa un’altra", afferrando immediatamente il volume o il giornale.
Lo sappiamo natìo di Reggio Emilia, contesto di provincia, perimetro corto, breve, prigionesco, che D’Arzo soffre come si soffre un cantuccio e dal quale – paradossalmente – tenta la fuga non fuggendo davvero ma rintanandosi sempre di più, come segregato, in via Aschieri 4, per tutta la vita, senza che gli amici possano mai conoscere la sua stanza, la sua libreria, il suo scrittoio. "Caro Vallecchi" – scrive al noto editore – "ti auguro di cuore di non arrivare mai a conoscere cos’è una cittadina di provincia". Stretto palco periferico; insieme di glorie presunte; panteon municipale risibile e cabarettistico, Reggio Emilia è una stazione, il bar della stazione, un paio di strade, una panetteria, una libreria disadorna, qualche panchina, due o tre cespugli ed è una gamma di figurine da varietà di terz’ordine: il pugile, il tenore, l’amante, l’ebete, lo scrittore amatoriale, il musicista mancato, il ciclista, il vecchio sapiente, il direttore di biblioteca che scrive "odi saffiche alle statue", qualche carnale fanciulla ammirata e mai avvicinata sul serio.
Lo sappiamo piccolo, minuscolo genio della scrittura e dello studio: a sette anni compone i suoi primi endecasillabi, a dieci legge grandi romanzi e capolavori avventurosi, a quindici fa doppio esordio editoriale (le prose di Maschere. Racconti di paese e di città e le poesie di Luci e penombre); a sedici il diploma; a venti ha già composto parte significativa della sua bibliografia, pubblicata poi postuma (L’osteria; Essi pensano ad altro; I morti nelle povere case; L’uomo che camminava per le strade); a ventuno la laurea in Lettere; a ventidue il primo piccolo capolavoro (All’insegna del buon Corsiero).
Lo sappiamo in trasferta da Reggio soltanto a causa della Seconda Guerra Mondiale. Come una bestiola cacciata dal nido per uno squasso, un rombo, un fastidio, D’Arzo sballotta tra Como, Avellino, Bari, viene fatto prigioniero dai tedeschi, messo su un treno con destinazione i campi di lavoro nazisti ma – sempre come una bestiola – per istinto e coraggio trova un pertugio, un buco d’aria, una via d’uscita e di fuga: scivola dal treno, si rifugia tra giacigli e ruderi ed in vecchie case, trova cura presso dei contadini per poi tornare – non appena la via è libera – in quel di Reggio: nella sua stanza, nella sua tana.
Lo sappiamo lettore onnivoro di Stevenson, Defoe, Maupassant; Shakespeare, Conrad, Henry James; Goldoni, Kipling, Hemingway, Lawrence e Tolstoj, Lermontov, Stendhal, Čechov, Flaubert ma anche di fiabe e di favole per bimbi, di letteratura per ragazzi, di diari di viaggio, di brevi romanzi di cappa e di spada.
Lo sappiamo inizialmente scrittore indeciso, confuso, girovago, perso tra lo stile altero e prezioso di Landolfi, Bonsanti, Savinio (“Ero un ragazzo, leggevo le riviste letterarie e credevo che scrivere come Landolfi e Bonsanti fosse il massimo”) e la prosa suadente, ricolma, incline alla descrizione fantasiosa e maniaca dei grandi dell’Ottocento, alle cui pagine ruba lo stile sperando di fare della pianura reggiana una nuova Londra, una diversa Parigi. Per questo troviamo paesaggi contadini, tracce d’edera ai muri, cortili chiassosi, balle di stracci, vecchie carte da gioco piegate come tetti di case, grossi bicchieri colmi di vino rosso, piatti di salumi e di pane accanto ad arazzi, diligenze, carrozze e figure sante o diavolesche, lune color verde acido, funamboli e graziose fanciulle, corde tese per giocolieri di strada, misteriosi avventurieri notturni.
Lo sappiamo intento a scrivere e a inviare a diverse case editrici ma mai direttamente, mai davvero di proprio pugno, col proprio passo, muovendo la propria emozione: "Per me l’importante è di liberarmi di quel che ho scritto e copiato. Tenerlo in casa mi dà noia e malessere" confida alla madre, nel pieno di un pranzo, e forse per questo affida i suoi scritti a chiunque possa portarli fisicamente a Firenze: sconosciuti di passaggio, membri ben disposti della famiglia, viaggiatori di commercio, signore anziane, allievi delle scuole militari, bottegai in vacanza di piacere, qualche amico, una coppia in viaggio di nozze, fungono da corriere di questo ragazzo timido, dalla voce bassa, la carnagione chiara, i capelli leggermente crespi, le sopracciglia curate, le mani magre, sottili, con dita che sembrano piccole stanghette di metallo.
Sappiamo questo e poco altro: delle lettere inviate a qualche critico letterario; di qualche biglietto amoroso scambiato con una fanciulla che mai sfiora davvero; dei rantoli che emana quando la leucemia comincia a scavare la carne, impallidire lo sguardo, rallentare il moto ma non la fantasia mentre ignoriamo di quali sprechi, di quali piaceri, di quali tormenti sia davvero fatta la sua giornata, ignoriamo come trascorre le ore che non trascorre a leggere e scrivere, ignoriamo cosa davvero pensa del resto, di tutto il resto ovvero di quel poco cui bada quando non bada alla Letteratura poiché la Letteratura – come per altri giovani come lui, chiusi, aggrovigliati, silenziosamente in ricerca – è tutto: “Niente al mondo è più bello che scrivere. Anche male. Anche da far ridere la gente” confessa con un tono che potremmo immaginare infantile, docile, quasi sognante eppure leggermente intristito, amarognolo, incline ad un’insoddisfazione perpetua.

 

 

Ma D’Arzo non è D’Arzo o – potremmo scrivere – non è solamente Silvio D’Arzo. Vittima del proprio stesso timore di apparire reale, identificabile, associabile a un volto, a un corpo, a un nome, scopriamo che “Silvio D’Arzo” è soltanto una formula, una registrazione, una sorta di codice valido solo per qualche tempo, solo per qualche occasione. Remo Comparoni è il nome reale dello scrittore ma “Remo Comparoni” non firma mai ciò che intende proporre, condividere, raccontare. Come presentisse già la malattia e la precocità della morte e, dunque, fosse cosciente di non poter vivere le mille ed una fasi della vita di chi continua a vivere (gli entusiasmi giovanili che si tramutano in atti sciocchi ma necessari; gli abbagli che generano altri abbagli; l’età che aumenta fino all’eccesso; gli affanni e le gioie apparentemente tardive; gli incontri improvvisi e le delusioni cocenti; il cambio continuo di pareri e opinioni; le credenze che smettono di essere credenze; gli affetti traditi e gli amori ritrovati; le lacrime di una perdita; i sorrisi di un incontro; gli acciacchi; i gesti che mutano forma, velocità e perdono di vigore; gli imbarazzi che assumono un altro tono; i malanni passeggeri eppure fastidiosi; le nostalgie, i ricordi, i pensieri passati); Remo Comparoni moltiplica se stesso nascondendo se stesso e così inventa eteronimi scheggiando l’unità dell’Io in un insieme impreciso e diverso di frammenti: Oreste Masi, Andrea Colli, Sandro Nadi e Sandro Nedi; Silvio D’Arzo e Silvio D’Azzo; Aldo Colli e Aldo Collin; Tullio Mari, Ezio Comparoni, Raffaele Comparoni ma anche Andrew MacKenzie e Ignoto del XX secolo. Ad un punto non gli basta neanche la falsificazione da tessera, non gli basta aver cancellato i suoi dati e vuol cancellare anche il suo volto, le sue fattezze di giovane che ha ancora pelle liscia, sguardo gradevole, guance piene, folta capigliatura scurita. Per questo impone a Vallecchi di pubblicare una foto fasulla, in cui si maschera portando baffi posticci, del bianco ai capelli, abiti che appartengono ad un altro secolo, ad un altro mondo. Non pago ancora inventa un’autobiografia parallela, diversa, possibile: "Sono nato a Fellettino (La Spezia) il 5 gennaio 1917. Ho fatto gli studi classici e mi sono laureato in Legge. Dopo questa laurea, mi sono iscritto al terzo anno della Facoltà di Lettere. Mi trovo da qualche tempo a Reggio Emilia – tre anni circa – dove lavoro senza quasi nessuna conoscenza e dedito ai miei lavori letterari".
Riuscendo a far esistere quest’altro da sé egli può permettersi ancora una volta di rimanere segreto, nascosto, in disparte. Guarda così le sue scritture respirare, al pari di un autore drammatico che veda in teatro la sua opera messa in scena dagli interpreti: egli è seduto nell’ultima fila, di lato, in solitudine: le parole che sente e che vede (spettatore del proprio stesso spettacolo) gli appartengono ma quest’appartenenza è un mistero, volutamente. “Che non si sappia che sono di Reggio Emilia: piuttosto di Reggio Calabria o Perugia”; “Badi che il mio nome, il mio nome vero, non giunga all’edicolante della piazza”; “Prego di nascondere le mie generalità, la mia identità reggiana”. Finché – ancora a Vallecchi – come spossato ormai da questi molti che gli assediano i pensieri quasi stancandolo, portandolo allo stordimento, sente di dover confessare: “Mi chiamo, anziché Silvio D’Arzo, Ezio Comparoni; anziché nel 1917, sono nato nel 1920. Altro non c’è”.
“Altro non c’è” scrive D’Arzo/Comparoni, cercando disperatamente di nascondersi ancora.

 

 

D’Arzo vive tra l’epoca della letteratura gaudente, preziosa, puramente laccata – per la quale "scrivere bene" vuol dire scrivere arzigogolando termini desueti o pregiati – e quella del verismo più spinto, che quando non può mettere in pagina direttamente l’ideologia mette in pagina i fatti (ed i fatti del Popolo soprattutto) perché dimostrino la bontà dell'ideologia. Tra Savinio e Vittorini, insomma: tra la propensione al racconto solfureo, misterico, giocoso e la dimostrazione di una tesi sociale. Ne scrisse – amaramente – in un breve saggio intitolato Fra Cronaca e Arcadia, descrivendo il passaggio dalla narrativa colma di "angeli e morti", "di briganti" e "di ragazzi lirici, solitari e squisiti" – abitanti di atmosfere "di una castità quasi gelida, lunare" puntualmente descritta con vocaboli quali "remoto, dolente, allusivo" –  alla narrativa che abita solo e soltanto in "Via della Cronaca" per cui "se prima si trattava di fantasmi e ragazzi e squisiti cadaveri, adesso è il turno degli uomini pieni di buona salute e di ossa e di sangue" e di sole d’agosto che brucia, di una marcia militante, di una distinzione netta – morale e di classe – tra buono e cattivo, giusto ed ingiusto, sfruttato e sfruttatore mentre le vie sono "piene di gente, e di grida e di sassi", i toni sono alti e decisi, le rivendicazioni immediate, i gesti diretti e fragorosi.
Quasi spaventato dalla decorazione preziosa di ieri quanto dall’oggi politicamente schierato, D’Arzo – almeno il D’Arzo migliore, il D’Arzo conservatosi nelle antologie della Letteratura come un minore straordinario, come un grandissimo scrittore mancato per sfortuna e morte precoce – è colui che scrive rinunciando o meglio non dicendo, badando a tacere, abbassando il tono e rafforzando l’ombra. Il D’Arzo migliore è quello che ha per modello Henry James e – pensando a racconti eccezionali quali Casa d’altri o Due vecchi – alle parole che D’Arzo dedica a James bisogna andare per fare analisi poetica, descrizione del suo stile. Per D’Arzo James ebbe il merito di sentire che "nella penombra di un salotto nel crepuscolo, in un castello gotico dell’Europa, si potevano incontrare avventure infinitamente più avvincenti (e in un certo senso più pericolose) che in qualsiasi giungla o metropoli dell’America"; che "certi silenzi e certe pause potevano avere una risonanza anche più profonda del fragore di un continente industriale"; che "il versare una tazza di tè davanti a un caminetto a fuoco languido in un'avanzante sera londinese, poteva anche equivalere a un rito vero e proprio, con le sue vittime, le sue offerte e i suoi dei". James − diffidando della convinzione per cui "non c’è mezzo migliore di possedere una cosa che ottenerla" − ha il merito di lavorare per sottrazione, per assenza, per mancanza: "non ha dubbi che la rinuncia sia anche un mezzo più sicuro e appagante". "Ormai" – continua d’Arzo – "dei fatti siamo arrivati a farcene una specie di culto o poco meno; direi che non si crede più che a quelli: James ne ha un’istintiva diffidenza: nei suoi libri non accade quasi nulla: nelle parti migliori dei suoi libri affatto nulla".
E termina: "Abbiamo fretta: James invece è un maestro dell’ostacolo: ne frappone continuamente, a piene mani, anche sulle strade che sembrano più piatte e per le mete che parevano già a portata di mano fin dalle prime pagine del libro". Ovvero: James si oppone alla comprensione totale, immediata ed univoca, insinua dubbi, genera incertezze, induce alla rilettura di una pagina, alla sua riconsiderazione, costringe a rivalutare un dettaglio, una frase, una sola parola. Come perduti in grossi stanzoni d’ombra, senza alcun appiglio visibile e chiaro, James costringe alla perdizione continua, al rovello, al giro in tondo, senza offrire una via di uscita evidente e sicura. Assumendo la lezione del maestro, così fa D’Arzo nelle sue scritture migliori rifiutando la brutalità dell’espressione, rendendo casto il linguaggio, abbondando in manchevolezza: intuendo che una tragedia può avvenire anche senza strepiti, al buio, col solo rumore prodotto dalla scrittura di una lettera, D’Arzo fa divampare il dolore lasciandolo tacito. Egli s’accorge che la ferocia, l’avversione verso l’altro, la volontà di ricatto o di punizione ma anche la stanchezza di vivere, il bisogno di confessarsi, la ricerca disperata di un contatto appartengono a un dentro non descrivibile, si muovono sottopelle, respirano senza parlare chiaramente: sono in un gesto accennato, in uno sguardo che non si ha il coraggio di prolungare, in una posa che s’immobilizza, cedevole.
"Non so se sia eccesso o mancanza di sensibilità, ma è un fatto che le grandi tragedie mi lasciano quasi indifferente. Ci sono sottili dolori, certe situazioni e rapporti, che mi commuovono assai più di una città distrutta dal fuoco". Così comincia Due vecchi.
"C’è quassù una cert’ora. I calanchi ed i boschi e i sentieri ed i prati dei pascoli si fanno color ruggine vecchia, e poi viola, e poi blu: nel primo buio le donne se ne stanno a soffiar sui fornelli chine sopra il gradino di casa, e i campanacci di bronzo arrivan chiari lì giù fino a borgo. Le capre s’affacciano agli usci con degli occhi che sembrano i nostri. Allora mi vien sempre più da pensare ch’è ormai ora di preparare le valige per me e senza chiasso partir verso casa. Credo d’aver anche il biglietto. Tutto questo è piuttosto monotono, no?". Così termina Casa d’altri.
Nel mezzo – tra i sottili dolori che stanno all’inizio e l’esigenza di tornarsene a casa – tutto ciò che deve accadere, senza strepiti, senza rumori, senza eccessi. Con la delicatezza con cui una foglia si poggia per terra, il mare si ritira dalla sabbia, una nube cambia il suo corso. Con la delicatezza di chi passa e tace e – pur vivendo – pare non aver vissuto davvero.

 

 

 

 

 

Silvio D'Arzo
L'aria della sera e altri racconti
a cura di Silvio Perrella
Milano, Bompiani, 2002
pp. 195

Silvio D'Arzo
Opere
introduzioni di Alberto Bertoni, Fabrizio Frasnedi
a cura di Stefano Costanzi, Emanuela Orlandini, Alberto Sebastiani
Parma, Monte Università Parma Editore, 2003
pp. 984

Silvio D'Arzo
Lettere
a cura di Alberto Sebastiani
Parma, Monte Università Parma Editore, 2004
pp. 450

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